a cura di Lorenzo Crestani
Riportiamo di seguito l’intervista gentilmente concessaci da Filippo Tognazzo, attore e regista per eventi culturali e festival.
R: Il mondo del teatro è tristemente tornato alla ribalta a causa delle chiusure forzate a cui è stato sottoposto durante la pandemia del CoVid19. Una recente iniziativa ha previsto l’illuminazione dei teatri locali e nazionali. Vuoi raccontarcela?
L’iniziativa di cui stai parlando è un’iniziativa dell’associazione UNITA, un’associazione nazionale che si occupa di tutelare attori e attrici. Ha avuto un buon successo in quanto è un’azione simbolica per mantenere l’attenzione sul comparto: se sparisci dalla discussione, rischi di diventare marginale.
La questione della crisi dei teatri non è solo legata al Covid-19: la crisi pandemica ha inevitabilmente portato alla luce la fragilità del settore con professionisti che, spesso, non hanno diritto a nessun tipo di sostegno economico.
C’è una motivazione culturale generale in Italia che non è supportata dal pubblico.
Un esempio? Per fare una rassegna, ti propongono 10.000€ per 10 spettacoli. Se vuoi ingaggiare attori professionisti per 1000€ a serata, si riesce a proporre uno spettacolo con 2 o 3 attori. Se lavori con dei non professionisti, ne puoi impiegare il doppio. Se vuoi impiegare più attori professionisti, fai lavorare anche in condizioni precarie, in quanto il professionista, pur di lavorare, accetta condizioni estreme e spesso lavorando senza tutele. Se lavori in nero, non esisti e sei senza tutele.
Il sistema quest’anno ci ha detto che non possiamo permetterci la cultura, o meglio, non si dispone di fondi tali da poterci permettere la cultura e anche la scuola, perché vanno molto a braccetto. E’ possibile che in una nazione non sia stato garantito un accesso a scuola tramite tamponatura? Da questo punto di vista sono molto polemico: abbiamo stock di banchi con le rotelle, ma…
L’azione di UNITA serviva per mantenere i fari puntati sul sistema, perché se a fine lockdown torniamo con il vecchio sistema, ma più poveri, abbiamo fallito su tutta la linea.
Dobbiamo mantenere l’attenzione e dire “Il lockdown ci ha dato due sberle, ci siamo svegliati, ora non dobbiamo tornare indietro!”
“Il rischio è che il teatro rimanga solo un simbolo… rischiamo di non aprirli più quei teatri.”
R: Quello che hai detto è molto interessante e per noi che siamo un Istituto Tecnico Economico sorge spontanea una domanda. Il problema in questo momento di crisi, affrontato anche nel teatro, potrebbe avere come soluzione un intervento pubblico?
L’intervento pubblico c’è sempre, anche quando apri una fabbrica perché per andare all’Ilva c’è una strada, ma non è che la strada la paga l’Ilva.
La scuola chi la paga? Tutti quelli che vanno a scuola producono o sono produttivi? Un paese deve decidere che ruolo assegnare alla propria cultura e, quando parlo di cultura, parlo di uno spettro ampio che va dalla biblioteca a colui che crea una suoneria del telefono, che è un musicista. Bisogna decidere quanto è importante la nostra cultura! Porto un esempio. La Regione Veneto ha un PIL (nominale) di 162.224 milioni di euro (162 miliardi) e destina alla cultura 5 milioni di euro. Allora la cultura è importante o non è importante? Dobbiamo deciderlo, altrimenti dovremo prenderci la responsabilità di dire ai giovani “Se volete fare cultura, non lavorerete!”. Se vogliamo continuare a fare cultura, dobbiamo metterci le risorse.
Attenti, quando stiamo parlando di risorse, non stiamo parlando di assistenzialismo, si tratta di consolidare un sistema perché inevitabilmente, quel lavoratore sarà un lavoratore che con lo stipendio potrà andare a prendersi una macchina, mandare i figli a scuola e fare tutto quello che fa una persona normale. Però, se mantieni una situazione di precarietà, quel lavoratore non esiste, ma devi aiutarlo a sistemarsi, che certo è un processo lunghissimo e servono risorse. Ad oggi parte del sistema è basato sullo sfruttamento delle maestranze artistiche, perché eravamo convinti che si potesse fare con 10 quello che si poteva fare con 50, abbiamo trovato chi ce lo faceva e ci è andata bene, ma adesso ci siamo resi conto che non va più bene.
“Il lockdown ci ha mostrato quale futuro ci attende se non interverremo”
R: Quello che ci stai raccontando corrisponde ad una certa visione di società che alcuni cercano di promuovere… una visione che più che formare cittadini, punta a formare automi…
Mi assumo le responsabilità di ciò che sto per dire, ma mi sembra che ci sia molta imperizia, una mancanza di competenze, un grave problema culturale, perché la cultura è quella che ti fa fare dei link e ti fa immaginare!
Infatti il design, che è una delle eccellenze italiane nel mondo, nasce dall’ibridazione della cultura e del senso estetico con le competenze.
Perché Ikea ha molto successo? Perché offre design a basso costo.
La cultura è anche quello, perché se non sei in grado di connettere le cose, non sei in grado di ragionare! E sei destinato ad essere sostituito da un algoritmo perché collegare due cose non è banale.
Noi siamo ossessionati dall’imparare a memoria, dall’archiviazione, ma il computer sa molte più cose dei professori.
Per questo il professore è colui che ti aiuta a fare i link, colui che sa leggere le cose per farle comprendere ad ogni singolo studente.
L’algoritmo, invece, tende ad omologare in categorie. E’ quindi il processo inverso!
La cultura è anche questo! Prendiamo come esempio la Dad: ad inizio percorso prendiamo i migliori professori e facciamo un webinar bellissimo, si arriva a fine percorso e hai fatto scuola? No.
Il lockdown non è stato uno stop, ma un balzo in avanti che ci ha mostrato come saremo in futuro se non cambiamo le cose.
Abbiamo bisogno della cultura per allinearci e stare assieme, perché senza di quello non siamo umani ma funzionali ad un sistema produttivo. Bisogna capire quello che c’è stato prima e quello che si è perduto – come lo stare insieme con gli altri – e bisogna lavorare anche per questo. La parola chiave dei progetti dell’Unione Europea dei prossimi decenni è “Rigenerazione”.
R: Quindi confermi che sembra che ci si rivolga alle persone soltanto come consumatori e non come cittadini?
Io parlo sempre secondo la mia personale percezione.
La parola d’ordine di quest’anno è consenso, se vai ad acquistare qualcosa ti dicono “la gente vuole quello“. Ma io non sono un supermercato, sono un artista.
Paradossalmente, quando vieni a teatro, il tutto si capovolge perché tu non vieni a vedere quello che vuoi, ma quello che ti propongo io!
La cultura dovrebbe essere una sedia scomoda e non una poltrona accogliente, perché così potrai sempre riflettere, interrogarti.
Altrimenti continueremo a fare consenso.
L’artista è per forza qualcuno di disallineato e la cultura è come l’intrattenimento che ci fa divertire che sia di altissimo o di bassissimo livello, ma la cultura ci deve mettere in crisi.
Picasso ti metteva in crisi, Cattelan ti metteva in crisi con la banana sullo scotch, però intanto ti stavi interrogando se quella era arte o no.
L’artista deve essere scomodo ed è per questo che non devi pretendere di vedere ciò che vuoi tu.
Tutti noi abbiamo una visione. L’artista però ti pone in un’ottica di apertura mentale, portandoci fuori dalla nostra zona di comfort.
Se poi creo consenso, allora si diventa un prodotto e ti faccio quello che vuoi, e tu continui a chiedermi ciò che faccio.
E’ per questo che dovremmo essere tutti un po’ anarchici; per quale motivo infatti dovrei stare dentro a questo algoritmo se non voglio starci?!
Il consenso è pericoloso, è quello che sotto regime ti fa dire quello che vuole il regime. Dissentiamo e confrontiamoci per arrivare ad una sintesi se ci arriviamo, al massimo ci avrai messo in crisi. A noi purtroppo importa soltanto di avere ragione.
“La cultura deve essere scomoda. Altrimenti non si cerca cultura, ma consenso”
R: Nel tuo profilo Linkedin risulti essere stato docente di public speaking e storytelling. Queste competenze sono essenziali per rimettere al centro la formazione dei cittadino e per l’esposizione dei loro pensieri. Quali consigli vuoi suggerire ai nostri lettori per migliorarsi in tutto questo?
Lo storytelling è un fake, lo faceva Omero. Infatti non è altro che un principio narrativo-organizzativo di ciò che stai dicendo; posso spiegarti una cosa dandoti solo l’informazione o gestirla con un principio organizzativo.
Per esempio puoi dire “obbedisci alla madre o al padre” oppure raccontare la favola di Cappuccetto Rosso.
La prima ti dà l’informazione mentre la seconda ti dà un concetto che ti rimane. Se io vendo un laboratorio di drammaturgia o di storytelling oppure ti propongo un laboratorio per parlare col pubblico o un laboratorio di public speaking fa la differenza. Questa è una specie di rivoluzione copernicana della comunicazione, perché quando parli, e questo è un elemento che attacco sempre della scuola italiana, devi dimostrare di aver studiato perché ti mette sotto esame e ovviamente il professore deve valutarti. Se tu la vedi come opportunità di condividere con gli altri ciò che hai capito, e la poni in questa maniera, il centro non è più la materia o il professore ma lo studente.
Devo fare tutto affinché tu possa capire. Se però tu non riesci, forse devo cambiare strategia e ti spiego come quello scienziato è arrivato a quella scoperta. A quel punto tu forse avrai capito ed un tuo compagno no. Allora entra in gioco lo storytelling.
Funziona? Certo, fino a quando ti coinvolge e questa è la rivoluzione copernicana: mettere al centro chi ti ascolta.
Se quello che ti ascolta non capisce, puoi anche essere il migliore del mondo, ma se non ti capisce non ti capisce.
Perché studiare Dante che è stramorto più di 700 anni fa? Cosa c’è che ti riguarda in Dante? Se non c’è nulla che ti interessa, tanto vale non studiarlo, però se ci riguarda allora va bene. Non saper comunicare significa non riuscire a far capire all’altro quanto è brillante la tua idea. E lì ci sono delle tecniche, ma trucchi no, non ce ne sono, c’è solo pratica.
Devo capire cosa ti rende unico e forte per poi andare a lavorare su di te. Se devi lavorare con qualcuno, devi capire che le componenti sono tre, emotive, oggettive e soggettive. Il public speaking è questa cosa. Io devo capire con chi parlo e cosa sanno, perché non posso pretendere di entrare in un Istituto Tecnico e parlare latino pensando che qualcuno mi capisca. Devo essere io ad adattarmi a te e non tu a me.
R: Cosa ne pensi degli attori che hanno cercato di lavorare online?
Io penso che ciascuno abbia fatto le proprie considerazioni ed alcuni hanno ragionato in termini di sopravvivenza. Noi abbiamo avviato alcuni progetti tramite ZOOM e solo in diretta per interagire con il pubblico.
Quando ci hanno chiesto di fare riprese, ci siamo rifiutati perché altrimenti si va a scavalcare quello che è il teatro, andando verso la televisione o il web.
Se in futuro il teatro si orienterà verso quelle piattaforme, probabilmente cambierò lavoro. La mia professione è stare a contatto con le persone e se io perdo il contatto con le persone cambio lavoro.
Chi lo ha fatto ha fatto bene, chi ha sperimentato ha fatto bene, ma è teatro? No, è un’altra cosa. E’ un linguaggio ibrido che prende le tecniche teatrali per fare un prodotto ibrido multimediale.
E’ diverso vedere un funambolo dal vivo o in diretta dal vederlo con o senza rete per vedere se cade, è brutale, ma è ciò che attira la tua attenzione.
Se lo spettacolo non muore in quell’ora, lo spettacolo non è più irripetibile e perde valore, e se perdi valore tu non vali niente. Il tuo valore sta nell’essere estemporaneo, la nostra vita ha valore nell’essere estemporanea.
“L’attualità delle maschere pirandelliane stà nel mettere in crisi la società, nel metterla davanti a sè stessa”
R: Il teatro può quindi essere d’aiuto per la formazione dei cittadini?
Io ho fatto un master in tecniche teatrali, ma non sono un educatore. Vedi, quando suoni uno strumento non devi diventare un musicista, quando ti insegnano a disegnare non devi diventare un disegnatore, pur studiando matematica non diventerete tutti matematici o fisici.
E’ giusto che ti siano forniti spettri di saperi, che ti venga mostrato che c’è una realtà e che ti vengono dati degli strumenti.
Il teatro a te potrebbe essere utile, mentre a molti potrà fare schifo ma sicuramente potrà darti delle competenze utili nella vita come tutte le altre. Attenti, se parliamo della storia del teatro. Hai studiato la storia della musica, ma sai suonare uno strumento, hai studiato letteratura teatrale e sai tutte le opere di Shakespeare a memoria, ma le sai dire?
Teatro non è solo conoscenza, è pratica ed esercizio.
R: In letteratura stiamo trattando Pirandello. Concordi con il fatto che ognuno di noi indossa delle maschere diverse a secondo del luogo, del momento e dell’interlocutore?
Le maschere di Pirandello sono parte delle esperienze di ciascuno, in teatro c’è una cosa che si chiama status che indica, a seconda di dove stai, un cambio della persona.
Per esempio un professore può essere calmo e tranquillo a lezione, ma in grado di diventare una vera e propria furia in altri contesti, il che è assolutamente umano e legittimo.
Si tratta della stessa persona che a seconda dei contesti cambia modo di essere e questo fa parte di noi. Pirandello lo ha tirato fuori e reso evidente.
Anche quando ci raccontiamo online siamo diversi da come siamo realmente.
C’è un bel libro di Debord chiamato “La società dello spettacolo”, in cui tutto questo viene esposto chiaramente. Ognuno si racconta per come gli piacerebbe essere e per come vorrebbe che gli altri lo vedessero.
Pirandello è oggi più che mai attuale e utile alla società, perché non fa altro che rimetterla in crisi.