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La crisi globale dei chip potrebbe mettere a rischio la ripresa post Covid

Lorenzo Pietro Padoan

Da ormai qualche settimana, la carenza di semiconduttori a livello globale è protagonista di numerosi articoli delle più importanti testate giornalistiche. L’offerta ridotta, a fronte di una domanda pari, se non superiore, sta provocando non pochi problemi di approvvigionamento alle industrie di svariati settori. I chip sono, infatti, presenti in una moltitudine di oggetti quasi sorprendente. Non vengono, per l’appunto, solamente adoperati nei dispositivi elettronici (ad esempio negli smartphone), come si potrebbe semplicisticamente pensare, ma anche in televisori, elettrodomestici (soprattutto frigoriferi), automobili e persino aeroplani. Un’industria, insomma, da miliardi di dollari (500 secondo uno studio di Bloomberg) e che offre lavoro a migliaia di persone.

Ovviamente non si tratta solamente della produzione dei chip (dei quali esistono centinaia di tipologie), ma anche di tutte le numerosissime imprese che li utilizzano nei loro processi produttivi e li inseriscono nei loro prodotti. Da quelli più costosi, come gli Intel, a quelli da un dollaro, cosiddetti display driver, che servono a trasmettere le informazioni basilari per illuminare lo schermo di un qualsiasi smartphone, i semiconduttori sono richiestissimi.

Ma visto che la domanda è così alta, come mai l’offerta non si è adeguata? In questo caso, non si tratta propriamente di una questione di equilibrio tra richiesta e disponibilità, anzi, si possono identificare varie cause di questa crisi, sia dal lato della domanda che dell’offerta.

In primis, la pandemia di Covid ci ha costretti casa, a lavorare, studiare e produrre a distanza e, ovviamente, tutto ciò attraverso i nostri device che, molto spesso, sono stati nuovi acquisti, non solo computer, ma anche tablet, smartphone e televisori. Ed è proprio in questo che possiamo riscontrare l’aumento vertiginoso della domanda.

Dietro la crisi dei semiconduttori ci sono tuttavia anche questioni geopolitiche che vedono ancora una volta al centro della disputa Stati Uniti e Cina. Quando oggi si parla di semiconduttori, si parla soprattutto di due aziende: la Tsmc di Taiwan e la coreana Samsung. Le due aziende asiatiche insieme detengono il 70% del mercato della produzione di semiconduttori (dati Trendforce). Inoltre, le riserve di terre rare globali (elementi chimici ottenuti da diversi minerali ed ampiamente utilizzati nell’industria tecnologica in numerosi componenti elettronici) si trovano principalmente in Cina (il 41% secondo i dati della Commissione europea) e ciò non fa altro che acuire il monopolio cinese. Proprio per ridurre la dipendenza degli USA dalla produzione asiatica, l’ex presidente Donald Trump, aveva ripreso con forza il dossier dei semiconduttori a partire dal 2019, nell’ambito delle tensioni commerciali con la Cina di Xi Jinping, ritenendolo una questione di sicurezza nazionale. L’industria delle armi, particolarmente sviluppata negli Stati Uniti, fa, infatti, ampio uso di semiconduttori.

L’amministrazione Biden ha mantenuto una forte sensibilità verso questo tema e il 13 aprile il neoeletto presidente ha annunciato un piano straordinario di aiuti per 50 miliardi di dollari che mira a fornire incentivi per consentire la ricerca e lo sviluppo di chip e semiconduttori, nonché ad incrementare la produzione nazionale. 

L’Unione Europea è, invece, ancora in ritardo sulla scelta delle risorse da mettere in campo concretamente per dare un forte impulso alla produzione degli stati membri e ridurre la dipendenza dalle due principali produttrici, nonché superpotenze, Stati Uniti e Cina. Risulta, infatti, sempre più importante che l’Europa attui politiche maggiormente aggressive in merito a determinate tematiche economiche, in modo da non essere, come troppo spesso è accaduto, alla mercè dei due giganti sopracitati. L’Unione Europea dovrebbe, anzi, emergere e farsi valere a livello internazionale se vuole mantenere il suo peso geopolitico all’estero e non ridursi ad una mera periferia a cavallo tra Oriente e Occidente.

In questo ambito, l’Italia, ha (stranamente) anticipato l’UE nelle sue decisioni, facendo valere il cosiddetto golden power lo scorso 31 marzo. Il caso è quello dell’azienda italiana Lpe di Baranzate, nel milanese, produttrice di chip ed originariamente destinata ad essere inglobata dalla società cinese Shenzhen Investment Holding Co. È accaduto, invece, che, su proposta del Ministro Giorgetti del MISE al Consiglio dei Ministri, il Governo italiano abbia deliberato l’esercizio del potere di veto conferitogli dalla normativa sul golden power, il quale non è altro che un insieme di poteri speciali esercitabili dall’Esecutivo al fine di salvaguardare gli assetti delle imprese operanti in ambiti ritenuti strategici e di interesse nazionale. Insomma, un esempio di come l’intervento dello Stato nell’economia, se regolato, possa in qualche modo tutelare il sistema, evitando che imprese particolari importanti o facenti parte di settori strategici finiscano nelle mani di gruppi stranieri con conseguenti effetti negativi sull’occupazione e sul tessuto economico.                              

Tornando al tema principale, la carenza di chip si stima possa durare anche fino al 2023, vista la necessità di adeguare una produzione piuttosto rigida e che necessita di investimenti pluriennali per essere incrementata. Il problema è che già molte aziende hanno dovuto interrompere interi cicli produttivi o chiudere direttamente alcuni stabilimenti proprio per la difficoltà, se non impossibilità, di reperire semiconduttori. È il caso, per esempio, di Apple, che sta sperimentando ritardi nella produzione tablet e PC, e di Samsung che ha dovuto rimandare l’uscita dei suoi nuovi smartphone e ridimensionare addirittura la campagna di lancio dei futuri. La crisi non ha poi risparmiato nemmeno l’automotive, con Stellantis che ha temporaneamente chiuso 5 dei suoi stabilimenti in Nord America e Tesla che ha dovuto persino interrompere la produzione per la mancanza di semiconduttori. E si potrebbero nominare numerosissime altre aziende colpite dalla penuria di chip, poiché i settori interessati, come già detto, sono moltissimi.                                                

L’industria di questi componenti rappresenta un settore altamente strategico e decisivo per il futuro, i semiconduttori sono i “chiodi a ferro di cavallo del 21° secolo”, come li ha definiti l’amministrazione Biden. Un prodotto di grande rilevanza, insomma, e destinato ad essere domandato in quantità sempre maggiori. Si può ben comprendere, quindi, la sua importanza in relazione alla crisi economica provocata dalla pandemia, vista la versatilità dei chip e il loro impiego in svariati settori. Una carenza troppo prolungata degli stessi potrebbe, infatti, avere effetti molto gravi sull’economia, con migliaia di posti di lavoro messi a rischio, come se il Covid già non avesse generato abbastanza disoccupati.

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