Annamaria Faccio
Un anno. Fin dall’inizio l’impressione di essere dentro un sogno. Domani mi sveglio e tutto torna al suo posto. Invece no, è tutto incredibilmente reale. E’ una bolla temporale, tutto dilatato. Il tempo si è fermato, è lento e mono-tono. Lo spazio si è improvvisamente ristretto. Esco per muovere gambe troppo ferme, per respirare aria nuova; i movimenti sono quasi incerti. Eppure mi guardo attorno e colgo particolari mai visti prima. Gli occhi più attenti, il respiro più consapevole. I sensi quasi amplificati. Ed è nel paesaggio circostante che gli occhi scoprono dettagli sconosciuti o trascurati: un albero vecchio e contorto, un muretto a secco, un focolare all’aperto. Ripercorro vecchie strade e sentieri poco affollati. Sono i tanti piccoli particolari che movimentano la mia vita da quasi un anno, un anno che sembra un’eternità. Come tutti, credo, mi sono rifugiata nelle piccole cose che ruotano attorno a me: la famiglia, gli amici più intimi, la natura.
“E ti vengo a cercare, anche solo per vederti o parlare, perché ho bisogno della tua presenza per capire meglio la mia essenza.” (Franco Battiato)
Forse non siamo mai stati soli, ma è capitato che ci siamo sentiti, ci sentiamo soli. Io ho cercato i miei pilastri, quelle persone particolarmente care, familiari o amici, che mi fanno sentire viva e danno significato ad ogni cosa. Perché il bisogno più grande è prendersi cura della propria persona e della propria anima. Socrate perseguiva la bellezza dell’anima. E noi abbiamo colto questa occasione? Ci siamo dedicati alla cura della nostra anima? L’abbiamo nutrita con generosità, bellezza, profondità, tenerezza?
Come insegnante vorrei prendermi cura della persona e dell’anima dei miei alunni. Non è facile, forse ci ho provato o ci ho provato troppo poco, ci proverò ancora. Di certo ho tentato di capire a fondo quello che stiamo vivendo, leggendo, informandomi, consultando testi, cercando prima di tutto di riconoscere i segni di cambiamenti epocali che vedono un incremento, mai visto prima, delle nuove tecnologie e del loro uso in ogni ambito della nostra vita: parlano addirittura di una quarta rivoluzione industriale. Ma è molto più probabile che si tratti, come dicono gli esperti, di una più profonda e radicale rivoluzione culturale e cognitiva, che investe l’individuo e la società. Noi docenti stiamo riflettendo attentamente sul nostro nuovo ruolo educativo, su nuove modalità che facciano acquisire ai nostri alunni le competenze necessarie per costruire la loro nuova identità adulta e per superare le difficoltà che ora incontrano. Fin da marzo dello scorso anno ci siamo accorti che dovevamo ripensare subito e profondamente i metodi di insegnamento, avendo compreso che vanno sviluppate nei ragazzi nuove competenze che garantiscano prima di tutto la sopravvivenza in questo “nuovo mondo”. Pur sapendo bene la teoria, non è facile raggiungere gli obiettivi che ci prefissiamo, mantenere sempre vivo l’entusiasmo per estenderlo poi ai nostri ragazzi, gestire la didattica suscitando interesse e anche emozioni nel trasferimento del nostro “sapere e saper fare” da noi agli alunni.
E’ questo il quesito che mi pongo ogni giorno. E’ questa altalena di preoccupazioni, di domande, di dubbi che ogni giorno si attiva nella mia testa e che oscilla continuamente da una sfera individuale ad una dimensione più ampia, più sociale, quella di docente che si preoccupa di interagire efficacemente con gli alunni, di in-segnare nel senso etimologico del termine, quello più vero, cioè lasciare un segno positivo e utile nel loro processo di crescita, nonostante tutte le circostanze contro del momento.
Mi piacerebbe insegnare loro soprattutto la passione, la pazienza e la resilienza. Passione e pazienza hanno la stessa radice pathos, paschein, il verbo che significa nello stesso tempo soffrire ed emozionarsi. Mi piacerebbe insegnare con pathos, l’incredibile “capacità di suscitare un’intensa emozione e una totale partecipazione sul piano estetico o affettivo”. Quindi passione per la natura, per la scoperta, per la bellezza, per la conoscenza profonda del nostro pianeta e di noi stessi come esseri viventi. Pazienza è la capacità di provare sensazioni, sopportare situazioni sfavorevoli o avversità, contrastando angoscia e depressione; non c’è pazienza verso gli altri o verso situazioni se prima non la si vive nell’accettazione di sé e della propria finitezza. Riconoscere i nostri limiti ora, senza pretendere troppo ma nemmeno rassegnarsi troppo in fretta, significa però impegnarsi fino in fondo con tutte le proprie energie per ritrovare il coraggio di affrontare le difficoltà, non subirle.
E questi pensieri portano all’altro termine, tanto nominato in questi mesi: resilienza, dal latino re-salio (risalgo), capacità di risalire. Molti però non sanno che è un termine che viene dalla scienza, solo di recente assunto e usato anche dal mondo socio-economico e psicologico. In metallurgia indica la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate, è il contrario della fragilità; nel campo biologico è la capacità di una materia vivente di autoripararsi dopo un danno o la capacità di un ecosistema di ritornare al suo stato iniziale, dopo aver subito una perturbazione che ha modificato quello stato. Ecco vorrei insegnare ai miei alunni (ma ricordarlo anche a me stessa) ad essere resilienti, l’opposto di essere vulnerabili, come la natura!
“Sono emozionato, spero di essere preparato, ieri ho studiato, sai… Non si finisce mai di imparare, si studia sempre”, mi diceva qualche anno fa il mio saggio professore di filosofia del liceo, Vittorio Andolfato, ormai settantenne, poco prima di una conferenza che avevamo organizzato insieme per i docenti. Queste frasi apparentemente banali diventano lezioni a distanza di tempo. Abbiamo effettivamente sempre da imparare, perché in ogni istante cambiamo noi, cambiano le circostanze, i punti di vista, si aggiungono esperienze che diventano lezioni. Quanto siamo cambiati in questi mesi? Quanto e cosa abbiamo imparato? Mi piace qui ricordare una recente sintesi, semplice ma profonda, di quanto abbiamo sperimentato e appreso in questo anno di pandemia: viene da Massimo Recalcati, filosofo e psicanalista, in una sua breve conferenza online organizzata dal Cubo, museo di impresa di Bologna. Abbiamo fatto esperienze, dice.
Innanzitutto abbiamo vissuto l’esperienza della distanza, di una distanza strana: ci siamo sentiti distanti ma vicini, in connessione come forse non lo siamo mai stati prima.
Abbiamo provato l’esperienza della cura e del prendersi cura, la grazia dell’attenzione e il restare accanto, soprattutto a chi ha bisogno.
Abbiamo subito l’esperienza del trauma, dell’inimmaginabile e inatteso, e dell’impreparazione a sostenere ciò, senza conoscerne le difese. Questo perché si è conosciuta l’angoscia del contagio, dell’estraneo. Chi è e dove è il nemico? È il virus o la persona dietro di me in coda al supermercato? Le nostre certezze, i nostri schemi chiari sono saltati, tutti. E, quando si tornerà alla normalità, rischiamo di perdere il mondo a noi noto? Sicuramente sarà diverso, forse in meglio.
Stiamo facendo esperienza di una versione diversa di libertà. Le restrizioni possono limitare la libertà individuale ma permettono la libertà e la sopravvivenza della collettività. Una lezione importante per tutti ma soprattutto per i nostri ragazzi e i nostri figli: libertà come forma di solidarietà, di responsabilità e di condivisione perché si percepisce l’altro. La libertà diventa la forma più alta di esperienza della relazione. Abbiamo sentito sulla nostra pelle l’importanza delle relazioni e la paura di essere abbandonati, perché la relazione è nutrimento per la vita. E chi è stato “bene” nell’isolamento… avrà paura di rientrare in relazioni normali, anche in quelle più intime? Questo aspetto del dopo-pandemia sta preoccupando moltissimo. Facciamo tesoro, nel “dopo” non dimentichiamo queste esperienze.
Recalcati conclude con un’immagine, quella biblica di Noè, che dopo il Diluvio, guarda lontano, non ha paura del futuro, ma pianta la vigna: insegna ai suoi figli a pensare a lungo termine. Dopo il diluvio ha un progetto. Dobbiamo perciò piantare vigne, avere progetti ed essere generatori di vita, perché la vita non si è fermata anche se costretta in spazi limitati, si continua a creare e a seminare. Questo vale per noi adulti e per voi ragazzi: prendetevi la responsabilità di imparare da quello che state vivendo e la consapevolezza di cambiare, o meglio il coraggio di cambiare. Siamo nel tempo della paura ma non dovete aver paura, il coraggio è sapere di avere paura.
Generate sogni, progetti, imprese. Guardate lontano, guardate oltre.
“Se i nostri ragazzi non hanno potuto beneficiare di una didattica in presenza nel corso di quest’anno, se hanno perduto una quantità di ore e di nozioni significative e di possibilità di relazioni, questo non significa affatto che siano di fronte all’irreparabile. Il lamento non ha mai fatto crescere nessuno, anzi tendenzialmente promuove solo un arresto dello sviluppo in una posizione infantilmente recriminatoria. Insegnare davanti ad uno schermo significa non indietreggiare di fronte alla necessità di trovare un nuovo adattamento imposto dalle avversità del reale testimoniando che la formazione non avviene mai sotto la garanzia dell’ideale, ma sempre controvento, con quello che c’è e non con quello che dovrebbe essere e non c’è. Si tratta di una lezione nella lezione che i nostri figli dovrebbero fare propria, evitando di reiterare a loro volta la lamentazione dei loro genitori. Non ci sarà nessuna generazione Covid a meno che gli adulti e, soprattutto, gli educatori non insistano a pensarla e a nominarla così lasciando ai nostri ragazzi il beneficio torbido della vittima: quello di lamentarsi, magari per una vita intera, per le occasioni che sono state ingiustamente sottratte loro. Coraggio ragazzi, siete sempre in tempo anche se siete in ritardo! È, in fondo, nella vita, sempre così per tutti: siamo sempre ancora in tempo anche se siamo sempre in ritardo.” (Massimo Recalcati)