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“Bisogna essere leali con i lettori”: Francesco Verderami si racconta

a cura di Andrea Dalla Palma, Andrea Gasparoni e Margherita Mazzarol

Fra le firme più apprezzate del panorama giornalistico italiano, Francesco Verderami è editorialista del Corriere della Sera. Ha ideato e condotto programmi televisivi per La7 (In breve e R-Retroscena) ed una rubrica di politica per Sky Tg24 (Il dettaglio). Con entusiamo, Verderami ha risposto alle nostre domande sul mestiere di giornalista, sulla carriera e soprattutto sulla politica. Orgogliosi pubblichiamo questa intervista esclusiva, ringraziandolo di cuore.

Come è iniziata la sua carriera giornalistica? Ha sempre pensato di fare il giornalista?
Fin da bambino volevo fare solo il giornalista. Ricordo quando disegnavo la prima pagina della Gazzetta dello Sport sui quaderni di scuola in terza elementare: scrivevo gli articoli in stampatello e li titolavo. Poi la domenica andavo a vedere le partite di calcio della squadra locale: mi mettevo accanto alla rete di recinzione e facevo sottovoce le radiocronache. A quattordici anni ho iniziato davvero a fare le radiocronache di calcio per una emittente del mio paese: io sono di Gioia Tauro, della provincia di Reggio Calabria. A sedici anni sono passato in una TV privata. E dopo la licenza liceale ho seguito la vocazione. Pur di fare il giornalista sono arrivato fino a Bolzano, dove per la prima volta a venti anni mi è stato pubblicato un articolo su un quotidiano. 

Quali percorsi l’hanno portata ad occuparsi di politica nella redazione del “Corriere della Sera”? ed in particolare alla politica interna?
Mi sarebbe piaciuto fare il giornalista sportivo. Sognavo di seguire i grandi eventi: le Olimpiadi, i Mondiali di calcio, i grandi giri ciclistici. Ma mentre stavo iniziando a farmi le ossa in un giornale del Sud, dopo essere tornato da Bolzano, arrivò l’occasione di lavorare per una trasmissione televisiva di Rete4 che si occupava di politica. Mi trasferii a Roma. E da allora mi sono appassionato alla politica, che immagino come un campionato di calcio: ci sono le squadre (i partiti), i capitani (i leader), e tutti hanno uno schema di gioco (i programmi) che servono per vincere lo scudetto (le elezioni). Così mi piace pensarla. Così l’ho pensata in questi trentacinque anni di mestiere: in TV, nelle agenzie di stampa, nei settimanali e infine al Corriere che resta il grande amore.

Qual è l’aspetto più importante di cui tener conto negli editoriali di politica interna, tema considerato piuttosto “delicato”?
I lettori. Ci rivolgiamo a loro, che hanno idee diverse. Ma tutti devono percepire che siamo sinceri quando esponiamo la nostra tesi. E anche se non la pensano allo stesso modo, devono sapere che non intendiamo fregarli. Solo così il rapporto negli anni si consolida. Ma basta poco perché il rapporto si incrini. Perciò bisogna essere leali. 

Cosa consiglierebbe a chi pensa di intraprendere la sua stessa carriera in futuro?
Di non mollare di fronte alle difficoltà. Il nostro mestiere è come una maratona: in tanti alla partenza e in pochi all’arrivo. Ma attenzione, bisogna sapere che dopo l’arrivo c’è una nuova partenza. Quando si diventa giornalista, ogni giorno c’è una gara: quello che abbiamo fatto ieri non conta più. Conta cosa faremo domani. E il nostro giudice sono i lettori. Se sbagliamo, mettiamo a repentaglio la nostra storia. Così la vedo.

Come gestisce le eventuali polemiche che possono scaturire dalla pubblicazione di un suo articolo?
Con determinazione: verso i lettori, che sono i nostri giudici; e verso i politici, che sono i rappresentanti dei cittadini e verso i quali bisogna portare rispetto. Ma rispettarli non vuol dire nascondere le loro responsabilità. La legge prescrive che ci sia il diritto di replica, e che chi ritiene sbagliato un articolo possa scrivere al giornale. Al giornalista tocca rispondere: se ha sbagliato ha il dovere di riconoscerlo, altrimenti conferma quello che ha scritto.

Indro Montanelli era solito dire: «Chi di voi vorrà fare il giornalista, si ricordi di scegliere il proprio padrone: il lettore.». Concorda con Montanelli? Ed è concretamente possibile, per un giornalista, “servire” soltanto il lettore?
Montanelli aveva ragione. C’è sempre un modo per rispettare questa regola.

Sino a qualche decennio fa, il mondo del giornalismo era costellato di professionisti considerati da tutti come punti di riferimento: basti pensare al già citato Montanelli o ad Enzo Biagi. Oggi, secondo lei, ci sono giornalisti che potrebbero prendere il loro posto? Se sì, chi? Se no, perché?
Nessuno a mio avviso potrà mai avere la statura di Montanelli. Ma nella storia recente ci sono stati giornalisti importanti che sono stati di esempio a molti colleghi. Perché hanno fondato giornali (come Eugenio Scalfari a Repubblica) o perché hanno cambiato il modo di impostare i giornali: penso a Paolo Mieli al Corriere della Sera, Gino Palumbo alla Gazzetta dello Sport, Carlo Verdelli a Vanity Fair. Però Montanelli per me non ha eredi. 

Come si è evoluto il mondo del giornalismo negli ultimi anni? E come reagisce  in queste settimane a questa emergenza Coronavirus?
Il giornalismo deve oggi convivere con i social. Sulla rete passa di tutto, anche che gli asini volano. Ma l’idea che tutti siano giornalisti è sbagliata e anche pericolosa. Il rischio non è tanto scrivere che gli asini volano. Il rischio è che ci siano persone che ci credono. Le conseguenze possono essere disastrose. Per esempio, ricordate la moda dei “no vax”? Dove sono in questi drammatici giorni del Coronavirus? Ecco, i giornalisti servono per dare credibilità a una notizia. Perciò è importante che siano affidabili e onesti con i lettori. Specie in un momento come questo, i giornalisti devono informare senza cadere nel sensazionalismo, che è il male del nostro mestiere. E negli ultimi anni ci siamo ammalati di sensazionalismo. Pensavamo così di essere grandi giornalisti. In realtà stavamo solo tradendo la nostra missione.

Qual è, secondo lei, il rapporto fra i giovani e i giornali?
Semplicemente non c’è, purtroppo. E non ho ricette per ricostruirlo. Dico però ai giovani che informarsi è il modo più diretto di essere liberi e di poter scegliere. Altrimenti si potrà credere al primo che dice di aver visto volare gli asini, e che anche noi possiamo volare.

Secondo alcuni osservatori, i giornali stampati sono in crisi. I giovani, soprattutto, utilizzano i giornali on-line oppure altri mezzi d’informazione più o meno affidabili. A suo parere, ci stiamo avvicinando ad una società della sintesi che porterà i giornali a fare la fine della radio, in disuso a causa dell’avvento della televisione? La carta stampata è in crisi ma le testate più importanti – come il Corriere – stanno avendo successo con il quotidiano on-line. Il mondo cambia, però la storia insegna che certe cose tornano. In modo diverso ma tornano. Io aspetto fiducioso. E comunque, avere tra le mani un quotidiano, sentire l’odore dell’inchiostro impastato con quello della carta, è un’esperienza bellissima. Per spiegarmi con voi ragazzi: è la stessa differenza che passa tra scrivere la parola “bacio” e dare un bacio. Cari colleghi del Pelapatate, fate la prova. E leggete.

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